Napoli Dentro

da | Lug 21, 2020 | Napoli | 0 commenti

“Mare dentro, mare dentro,

senza peso nel fondo,

dove si avvera il sogno (…)

Più dentro,

più dentro,

fino al di là del tutto,

attraverso il sangue e il midollo (…)

Però sempre mi sveglio,

e sempre voglio essere morto,

per restare con la mia bocca

preso nella rete dei tuoi capelli.”

(R. Sampedro)

Massimo Saintgold

Quando è nata questa rubrica, è nata con la dichiarata intenzione di raccontare la vita in questa città assurda e meravigliosa, con la scommessa di camminarci dentro partendo da zero e cercare di disegnarla dall’esterno, semplicemente per com’è.

All’epoca non l’avrei ammesso nemmeno a me stessa, ma trasferirmi qui di punto in bianco mi spaventava a morte. Quando sono scesa dal treno la prima volta, e ho comprato una mappa, ho pregato che andasse tutto bene, senza mettere nella preghiera grandi speranze.

All’inizio è complicato, perché Napoli non ti accoglie se non sei tu per primo ad accogliere lei. E se vieni da un altro luogo devi cominciare da zero, partendo da Piazza Garibaldi senza passare dal via.

Oggi sembra che ci abiti da sempre, eppure sono passati soltanto due anni. Pochi, ma abbastanza per provare a fare un consuntivo.

Sì, la città è disgraziatamente bella, come possono essere belle sole quelle cose povere e disperate; ha il sole, il mare, l’arte, la storia, i colori. Sì, ha molto, ma come altri posti. Non può bastare per dipenderne, e quindi perché finiamo per volerla così tanto, per sentirla dentro? Cos’è davvero?

Ci ho molto pensato prima di capire che il vero fascino di Partenope è in cose (solo apparentemente) troppo astratte per potere essere perimetrate e chiamate per nome e cognome, eppure realissime, tangibili, se capiamo come toccarle e come farci toccare. Che secondo me sono queste.

Napoli si è condannata e salvata perché rifiuta l’esterno, e così si preserva. I panni rimangono stesi al sole dei vicoli, il codice della strada resta un suggerimento da cui diffidare, ché si corre il rischio – a seguirlo – di fare qualche incidente. Il caffè – checché se ne sia detto – rimane caffè, la gente dei bassi resta seduta sulla soglia a guardare il mondo scivolare, e oltre la sporcizia, a guardare bene, c’è qualcosa di davvero pulito, che non si è mai fatto contaminare.

Per questo, ad esempio, la recente moda delle patatinerie è destinata ad essere sopraffatta dall’aroma di ragù d’altri tempi, e c’è da riscoprirsi religiosi per pregare in questo senso. Moda non a caso partita dal Vomero, che di napoletano ha ben poco, nemmeno la musicalità dolce della lingua. Del resto, se Hengeller ha osservato che se Ulisse fosse nato al Vomero Napoli non sarebbe stata la sua Itaca, un motivo ci sarà.

Napoli, Vomero

Napoli è fatta per gli insonni, perché è viva. Napoli non dorme mai. Chiude gli occhi quando il resto del mondo si sveglia. E’ deserta soltanto di mattina presto, perché è rimasta ad occhi sbarrati fino all’alba, che è lenta e quieta, e colora piano piano. Napoli è insieme la discrezione delle sue albe e l’arroganza dei suoi tramonti. Napoli è la prova dell’esistenza, e della necessità, della convivenza tra contraddizioni, Napoli è una puttana altera che gronda dignità oltre la sporcizia.

Napoli va trattata come un gioco che ho visto, ragazzina, e mi ha incantata. Una persona ti porta nel centro di una città, che tu già conosci. Ti fa chiudere gli occhi, ti fa perdere l’orientamento, e poi accompagnandoti per non farti cadere, sempre e rigorosamente ad occhi chiusi, ti costringe a muoverti per quegli spazi senza sapere dove tu sia. Ti fa passeggiare, ti fa parlare delle persone che camminano per strada, che tu non vedi. Ti fa ricostruire le loro vite al dettaglio, finché non ti perdi nell’immaginazione, e se sbagli si arrabbia, perché devi riuscire a vedere. Ti fa sfiorare le cose, ti costringe a raccontargliele, ti porta (forse) in un negozio d’abbigliamento, dove ti impone di indovinare il colore delle maglie in base al tatto. Fa così per ore, finché non sei completamente cieco e completamente vedente. Alla fine ti fa salire chissà dove, ma dev’essere alto perché senti l’aria. Smette di tenerti, e ti dice di correre. Tu hai gli occhi chiusi da ore e potresti essere ovunque, correre da solo sembrerebbe la cosa più assurda da farsi, e hai paura. Ma corri. Alla fine della corsa vieni ripreso e ti senti libero, stupendotene. E, se sei fortunato e chi ti guida conosce l’ironia, quando finalmente ti fa riaprire gli occhi, ti ritrovi dentro un supermercato, ossia nel posto in cui stavi effettivamente andando prima di finire a tradimento dentro quel gioco. Gli chiederai, in futuro, di fartelo rifare cento volte. Ma non succederà più, perché sempre ti risponderà che ormai non avrebbe senso. E la stessa città che tanto bene conoscevi, e che tanto sei stato costretto a sentire senza vedere né sapere dove fossi, dal giorno dopo sarà centomila volte più bella di sempre.

Guardatela così, Napoli. Prima ad occhi aperti, e poi chiudete gli occhi. E quando siete pronti, correteci dentro alla cieca. Perché dopo la guarderete ancora, quella di sempre, ma sarà tutta un’altra cosa. Dopo, allora potrete dire di averla conosciuta davvero.

Ogni tanto me lo chiedo, cosa poi nello specifico mi abbia tanto legato a questa città. E mi rispondo che, in fondo, il vero motivo è che Napoli ti sa fare sentire a casa: se arrivi e per qualche motivo te ne innamori, diventa una sorta di amante, da prendere quando dà il meglio di sé e da allontanare quando fa cose terribili, ma così assorbente che diventa impossibile non sentirne la mancanza se ci si allontana.

Napoli è come la ragazza giapponese con cui vivevo, che dopo averla abitata per più di un decennio si è trasferita in Svizzera per dimenticarla, ma ogni mozzarella al supermercato la faceva piangere.

Alla fine è tornata.

Iscriviti alla Newsletter